Dalla terra alla terra. L’epopea di Gianluca Basile, classe 1975 da Ruvo di Puglia (Ba), finisce come era cominciata: con le mani sporche nella terra. Una terra inizialmente ripudiata, temuta, dalla quale fuggire. E oggi invece rincorsa, riapprezzata e goduta nella sua quotidiana semplicità.
Mettetevi comodi perché stiamo per raccontarvi la straordinaria storia di un grande eroe pugliese dello sport: Gianluca Basile.
Dai banchi di scuola ai banchi di frutta
Nella Ruvo di fine anni ’80 Gianluca è un bambino come tanti. Non ama particolarmente la scuola e i compiti e appena può è giù in strada con gli amici. Non gli serve l’erbetta sintetica e il completino stirato per tirare calci a un pallone: bastano due pietre a fare da pali e un paio di scarpe da ginnastica. Solo due cose potevano fare da triplice fischio alle infinite partite in strada: il cattivo tempo e il rumore delle moto Guzzi dei vigili urbani, pronti a sequestrare quella sfera scagliata di continuo contro i garage e le vetrine dei negozi. E allora tutti via, a rifugiarsi a gambe levate in sala giochi.
Gianluca è appunto uno dei tanti, gioca dove serve, difesa, attacco, è indifferente, tanto non eccelle. Esattamente quello che gli dicono quando il padre praticamente lo costringe a fare un provino col Bari calcio, convinto da appassionato di sport che con un po’ di concentrazione in allenamento e qualche palleggio davanti al muro suo figlio potesse colmare il gap tecnico.
Ben presto, però, il signor Basile dovette affrontare questioni più spinose. Il giovane Gianluca, infatti, a metà della terza media è stufo di studiare e vuole mollare la scuola. Un duro colpo per il padre, contadino laureato che la mattina passa le ore in campagna a coltivare la frutta nei terreni ereditati dai nonni e il pomeriggio fa l’insegnante di francese alle serali. Gianluca finisce a stento le scuole dell’obbligo ma a stare sui libri proprio non è portato. Le uniche ore in cui si sente veramente coinvolto sono quelle di educazione fisica. Alle elementari, infatti, ha avuto come insegnante Biagio Di Gioia, un cestista dell’A.S. Ruvo che puntualmente gli metteva la palla a spicchi in mano. Così, quando a quindici anni Basile si avvicina definitivamente al basket, se ne innamora a tal punto che il tragitto a piedi dalla palestra a casa è tutto una simulazione di corsa, arresto e tiro. Ma l’abbandono scolastico è una via pericolosa, che potrebbe fargli credere che i sacrifici siano inutili, che nella vita conta solo divertirsi. La decisione del padre, di conseguenza, è di quelle irrevocabili: “Se non vuoi più andare a scuola, allora verrai a lavorare con me”.
Tre anni di sveglia alle 5
Costretto ad alzarsi all’alba per andare nei campi, Gianluca apprende la cultura del lavoro e il valore della fatica. Respirare l’aria della natura è salutare ma la vita del contadino è dura per un adolescente. Freddo d’inverno, afa d’estate, sveglie traumatiche: senza usare mezzi termini “si fa il mazzo” e capisce che forse andare a scuola non era poi così malaccio. E siccome sul parquet si dimostra discretamente bravo, comincia a vedere il basket come una via di fuga da quel mondo così lontano dai sogni di un ragazzo. Il padre è d’accordo ma al tempo stesso rilancia sull’istruzione. Ci tiene che almeno uno dei suoi figli intraprenda la strada dell’agraria e lo porta con sé a fare un tour esplorativo in Brianza, dove ci sono molti istituti specializzati. Durante il viaggio fanno anche una tappa a Cantù per fargli fare un provino alla Clear. Alla fine, però, non lo presero né le scuole né la squadra e fecero ritorno in Puglia con le pive nel sacco.
Da quel momento Gianluca Basile capisce di trovarsi di fronte a un bivio: sfondare nel basket o affondare le mani nella terra. Per sempre. Dalla sua ha un genitore sportivo che crede molto in lui, lo sprona e lo supporta nei momenti difficili. Perché in fondo Gianluca è solo un ragazzo timido bravo a giocare a pallacanestro e nelle giovanili pugliesi di cestisti bravi come se non più di lui ce ne sono parecchi. Riuscire ad emergere, dunque, è una questione mentale, di costanza negli allenamenti e, naturalmente, predisposizione fisica. Che a Gianluca, bello alto e prestante, di sicuro non manca.
Trascorrono tre lunghi anni sotto il sole cocente nelle campagne delle Murge pugliesi. In quel periodo c’è ancora l’obbligo di leva e, pur di mollare l’agricoltura, a Basile sta bene indossare la divisa. A quella del soldato semplice preferirebbe quella dei Carabinieri, che pagano meglio.
Posto fisso, stipendio sicuro, buttali via: e fa domanda.
Nel frattempo il ragazzo di Ruvo è migliorato parecchio sotto canestro, tanto che dalla lontana Reggio Emilia qualcuno si accorge di lui. L’amico di famiglia Riccardo Chieco, infatti, lo ha segnalato a sua insaputa a coach Virginio Bernardi, che insieme al responsabile del settore giovanile Giordano Consolini sta costruendo la Reggiana neopromossa in A1 proprio sui ragazzi. In realtà starebbero cercando dei lunghi, di guardie e play la Bassa padana è piena, ma decidono ugualmente di portar su quel talento pugliese: vitto e alloggio più 200mila lire di paghetta.
Qualche mese prima del trasferimento, però, Gianluca sta giocando uno dei tanti camp estivi, cade male e si rompe un braccio. Il terrore di suscitare nei dirigenti reggiani dei ripensamenti che possano far saltare tutto è grande e così, il giorno prima della partenza, decide di sfilarsi il gesso pur non essendo perfettamente guarito.
Dalla stazione di Barletta comincia la sua avventura di cestista professionista. Solo, in un treno pieno di sconosciuti, seduto nel corridoio col borsone sulle ginocchia e la testa china per dormirci sopra, Gianluca Basile sa che al sogno di diventare un giocatore di basket corrisponde l’incubo di dover tornare a spaccarsi la schiena in campagna.
L’amore paterno
L’ambientamento al nord non è semplice. Per un diciottenne che non è mai uscito da Ruvo di Puglia, Reggio Emilia è un altro pianeta. La città è bella e lo accoglie bene, ma la giornata tipo nella foresteria della Pallacanestro Reggiana è tosta. Il livello cestistico, poi, è cento volte più alto e non passa giorno in cui Gianluca, guardando la sua carta d’identità con su scritto “bracciante agricolo”, non si chieda: “Ma che ci faccio qui?”. A credere fortemente in lui, però, è la famiglia, che dall’altro capo di una cabina telefonica si assicura innanzitutto che stia bene e che non si sia fatto male, e poi dissipa con parole d’affetto le legittime incertezze e paure di un ragazzo lontano settecento chilometri da casa.
Basile convive con la costante sensazione di essere più scarso degli altri e, tormentato dal pensiero di zappe, aratri e trattori, si ferma in palestra più del dovuto, per combattere quel complesso di inferiorità che da sempre lo accompagna sul parquet. Un carico di lavoro che l’ulna e il radio del suo braccio malandato e mai completamente guarito mal sopportavano, al punto da causargli diverse fratture. All’ennesima ricaduta, la dirigenza emiliana lo retrocede in pianta stabile tra gli Juniores, nient’affatto convinta che sia così promettente come si sperava.
L’avventura di Gianluca nel basket professionistico sembra potersi concludere dopo soli dodici mesi: quando la sua vecchia società pugliese chiede un ulteriore versamento economico per la totalità del cartellino, la Reggiana sembra pronta a liberare un posto in foresteria. Il suo.
Dopo lunghe e insistenti telefonate allo staff biancorosso per convincerli a dare al figlio quella fiducia che nemmeno Gianluca aveva in sé stesso, sarà ancora una volta suo padre a prendere in mano la situazione sborsando di tasca propria i due milioni di lire del cartellino e regalando al figlio un’ulteriore possibilità. Un gesto d’amore paterno, che alla fine si rivelerà un investimento vincente.
Un anno su e giù in treno
Il secondo anno a Reggio doveva essere quello del riscatto. Ma coinciderà invece con l’arrivo della cartolina di leva: sembra passato un secolo da quella domanda – ormai irrevocabile - fatta a Ruvo con la speranza di un posto fisso nell’Arma. Ora tutto è cambiato, c’è il basket, c’è la Reggiana, c’è un futuro da scrivere sotto canestro. Il presente di Basile, però, sono tre mesi di naia a Chieti prima di essere trasferito in una caserma dei Carabinieri di Firenze dove trascorrerà la maggior parte della stagione, tra il disappunto dei dirigenti della Reggiana. Basile sa che non gli verrà data una terza chance. Non vuole tradire la fiducia che la sua famiglia ha riposto in lui. E, last but not least, la paura di dover tornare alla vita precedente se non fosse riuscito ad emergere è sempre al suo fianco.
Quella vita però gli ha insegnato cosa siano fatica e sacrifici. Ed ora non teme di affrontarli pur di arrivare al suo obiettivo. Basile riesce quasi sempre a farsi assegnare i turni diurni, poi corre al binario 5 della stazione di Santa Maria Novella a prendere il treno delle 14.07 che ogni santo giorno lo porta a Bologna. E da lì a Reggio, per allenarsi con la squadra. Dopodiché doccia e percorso inverso fino in caserma a Firenze. A dormire, quando ha il diurno; a lavorare, quando ha il turno di notte. Una routine insostenibile se dietro non ci fosse una motivazione gigantesca, che lo fa andare avanti anche nei momenti più complicati. Come quando arriva in stazione talmente trafelato da sbagliare treno e anziché quello delle 14.07 per Bologna, si ritrova su quello delle 14.05 diretto a Roma. Oppure quando non ha il permesso firmato dai superiori e allora pur di non saltare l’allenamento scappa di nascosto facendo l’autostop. Ma sempre col sorriso di chi sa di poter essere un privilegiato, perché la sensazione di stare fuggendo da qualcosa non lo ha mai abbandonato.
Fa ciò che agli altri non va di fare
Nonostante gli sforzi, Bernardi e Consolini lo tengono ancora ai margini della squadra senza mai farlo esordire tra i pro benché alla soglia dei 20 anni. Nemmeno quando arriva con un permesso speciale della caserma pur di non saltare la partita infrasettimanale. Questo suo scapicollarsi da trasfertista non piace, preferiscono puntare su altri ritenuti più sul pezzo e, anzi, gli propongono di andare in prestito al Chieti. Ma dopo una salvezza al fotofinish ai playout 1993/94, nel ‘94/’95 la Reggiana retrocede malamente in A2. La società è senza fondi e rischia il fallimento. Date le incertezze sul futuro, Gianluca Basile ottiene un provino con il Varese del mitologico coach Edoardo Rusconi che ne rimane molto impressionato. Ma essendo già coperto nel ruolo di guardia da un altro giovane che avrebbe poi scritto la storia della pallacanestro italiana, il figlio d’arte Andrea Meneghin, l’unica possibilità per Basile è dimostrarsi più forte di lui nell’uno contro uno. Meneghin però non raccoglie il guanto della sfida e non si presta. Qualche anno e molte vittorie più tardi, Meneghin e Basile diventeranno ottimi amici, tanto che il pugliese sull’episodio dichiarerà: “Disse che non ne aveva voglia, forse temeva che gli avrei fatto il c…”.
Fatto sta che non se ne fa nulla. Rusconi si tiene Meneghin guardia e Pozzecco play, mentre Basile torna a Reggio Emilia, che nel frattempo è passata a una cordata di imprenditori locali e ha salutato coach Markowski per consegnare la panchina proprio a Giordano Consolini. Complice anche una campagna acquisti decisamente magra, Consolini si affiderà molto ai ragazzi del suo vivaio, tra cui Gianluca Basile. Essere finalmente dentro il roster dell’A2 non accresce comunque la sua autostima: il ventenne di Ruvo di Puglia sente che deve dimostrare sempre tutto, giorno dopo giorno, agli altri ma soprattutto a sé stesso. E che uno come lui può stare a quel livello solo con una cura maniacale dei dettagli. D’altronde, è quello che gli ripete continuamente suo padre: “Fa sempre le cose che agli altri non va di fare: se ci riesci, giocherai sempre”. Una logica scontata ma veritiera, perché a tutti piace fare canestro ma di pallone in campo ce n’è uno solo e c’è anche bisogno di chi sappia difendere, correre, lottare. In una parola: sacrificarsi.
Consolini, poi, coi ragazzi è un sergente di ferro: in foresteria li segue persino a tavola, in palestra non tollera che si batta la fiacca. E i risultati si vedono: la Reggiana centra un clamoroso terzo posto e pone le basi per quello che sarà uno dei suoi cicli più belli di sempre.
Dall’A2 alla Nazionale
Nella stagione 1996/97 Basile raddoppia il suo minutaggio e triplica i punti fatti risultando decisivo per la promozione in Serie A1, pur mantenendo la timidezza di sempre. Quando disputa le sue prime partite nel quintetto base non è mai completamente soddisfatto e tende a buttarsi giù se ne gioca una anche poco sotto i suoi standard. Eppure sul parquet è un leader: con 80 punti in 4 incontri (di cui 27 solo in gara 4) guida la squadra alla vittoria nella finale playoff contro Gorizia, al punto che l’allenatore avversario Fratres dirà: “In quattro partite abbiamo tentato di marcare Basile in tutti i modi: abbiamo fatto la zona, l’abbiamo marcato a uomo con Biso, Foschini, Riva, Mian e non ci siamo mai riusciti. La verità è questa: in quattro partite lui ha sempre fatto la differenza”. E nonostante Consolini provi a gettare acqua sul fuoco, è chiaro a tutti che Basile con l’A2 non abbia più niente a che vedere: le due franchigie bolognesi Virtus e Fortitudo mettono gli occhi su di lui e lo stesso fa il ct della Nazionale Ettore Messina.
È il 30 dicembre 1996 e l’Italia è impegnata in amichevole a Livorno contro la rappresentativa universitaria americana del North Carolina, in cui militano due future star NBA come Vince Carter ed Antawn Jamison. Nonostante abbia militato solo in A2 senza mai frequentare con continuità le nazionali giovanili, Messina convoca Basile all’ultimo momento al posto di Myers infortunato. Quando un dirigente reggiano glielo comunica, lui è come al solito rimasto in palestra da solo per affinare il tiro: “Vatti a fare la doccia, Messina ti aspetta”. Gli tremano le gambe mentre affronta la neve per raggiungere la Toscana sulla Golf appena acquistata coi primi risparmi. L’Italia perderà 74-81, ma quello sarà l’inizio di una lunga storia d’amore tra Basile e i colori azzurri.
Tra nozze e playoff
Alla fine Gianluca sceglierà di restare a Reggio Emilia dove farà il titolare fisso in A1 collezionando numeri da capogiro: 13.2 punti e 4.3 rimbalzi di media - quest’ultimo record personale mai più ritoccato - anche grazie all’intuizione del nuovo coach Dado Lombardi. Amante dei play alti, lo spostò in cabina di regia, ruolo che aveva già ricoperto da ragazzino.
Fino all’ultima giornata la Reggiana rischia la retrocessione, salvo poi espugnare il campo della Fortitudo Bologna e accedere addirittura ai playoff scudetto. Da lì in poi la squadra si trasforma: agli ottavi di finale fa fuori l’Olimpia Milano e ai quarti affronta la Benetton Treviso del leggendario coach Zelimir Obradovic. Arrivati a gara 5 in perfetta parità contro una squadra che quell’anno aveva disputato le Final Four di Eurolega, i reggiani devono fare i conti anche con l’assenza del grande Mike Mitchell, infortunato. Eppure, il 30 aprile 1998 realizzano l’impresa grazie alla formidabile prestazione di Basile che, in 40 minuti, mette a segno 24 punti, 6 rimbalzi, 3 recuperi palla, 12 tiri liberi su 14 e 6 su 16 dal campo, subendo anche 11 falli.
La semifinale è con la Fortitudo Bologna, ma c’è un problema. Gianluca e Nunzia, la ragazza con cui sta insieme da quando aveva 18 anni, hanno prenotato la data del matrimonio – il 5 maggio – un anno prima. È così che si fa, specialmente in Puglia dove le sale ricevimento sono sempre piene. Al tempo nessuno immaginava che la Reggiana neopromossa potesse centrare i playoff scudetto ed essere in campo ancora a maggio. Prima del sorteggio delle gare tutta la famiglia Basile trema e prega, ma fortunatamente il 5 maggio è salvo: tra gara 1 e gara 2 Basile prende un treno, scende a Ruvo, si sposa e poi rientra in Emilia. Sotto l’abito da cerimonia, la canotta biancorossa numero 7.
Pur qualificandosi per la prima volta alla Coppa Korac, l’avventura scudetto della Reggiana terminò in semifinale. Dopo quella serie, però, il pugliese smette di essere una promessa o un emergente e diventa di fatto una delle grandi stelle del basket italiano. In quattro anni a Reggio Emilia, tra allenamenti logoranti e continui perfezionamenti dei fondamentali, il Baso – così era stato soprannominato – è ormai uno dei pezzi pregiati del mercato. E se nell’estate 1998 la dirigenza riesce a resistere a tutti gli assalti, nel mercato di riparazione di gennaio deve cedere a quella che fu una trattativa a dir poco clamorosa.
Un’asta miliardaria
L’interessamento per lui da parte delle due bolognesi padrone del basket italiano era noto, ma a Natale ’98 si scatena una vera e propria asta miliardaria: da una parte le V nere della Virtus – allenata tra l’altro da Ettore Messina – dall’altra le aquile della Effe scudata, la Fortitudo. Le voci si rincorrono fino a che il telefono di Basile non squilla. Dall’altra parte c’è il suo procuratore: “Preparati, Alfredo Cazzola – presidente della Virtus -vuole parlarti”.
I due si mettono in macchina e in tarda serata raggiungono la sede delle V nere. All’ingresso, in bella mostra, la Coppa dei Campioni vinta in primavera contro l’Aek Atene: “Chissà se un giorno riuscirò a vincerla anch’io”, si domanda il modesto Basile. Il colloquio con Cazzola è breve e formale, ma i tre trovano un accordo praticamente su tutto (o almeno così si disse in un primo momento). Sembrerebbe fatta, anche perché la prima telefonata del Baso per chiedere un consiglio prezioso è per suo padre, che gli conferma l’apprezzamento per quella scelta.
Passa un mesetto e con il mercato che si chiude il 31 gennaio, anche a Reggio Emilia hanno ormai metabolizzato la partenza immediata di Gianluca, tanto da non convocarlo per le ultime trasferte. L'ufficio stampa della Virtus aveva già stampato il volantino con lui in canotta bianconera, ma a un certo punto cominciano a rimbalzare strane voci circa un ripensamento di Messina, che preferirebbe posticipare il trasferimento a fine stagione. L’indiscrezione finisce sui giornali e ovviamente anche alle orecchie della dirigenza della Fortitudo, che nel frattempo è stata eliminata dalla Coppa Italia e ha incassato i saluti dell’italo-americano Vinny Del Negro, giunto a Bologna durante il lockdown NBA ma pronto al ritorno in patria nei Milwaukee Bucks. Per sostituirlo i tempi sono strettissimi, ma il presidente delle Effe scudate Seragnoli decide di provarci lo stesso, contatta il procuratore di Basile e per superare la concorrenza dei cugini offre un contratto pazzesco.
È il 31 gennaio 1999, ultimo giorno di mercato, e l’incertezza regna ancora sovrana mentre i telefoni sono bollenti. Mentre quello del procuratore frigge per mettere a punto gli ultimi dettagli del faraonico accordo con la Fortitudo, quello di Gianluca compone ancora una volta il numero di casa per un ultimo consulto col padre, che gli conferma la preferenza per la Virtus. Ma mentre si confrontano e mettono sul piatto pro e contro, Gianluca si rende conto di essere più convinto di quello che credeva a voler firmare per la Fortitudo. La scelta era compiuta.
A pochissime ore dalla sirena del mercato, il procuratore rischia di far impazzire il general manager della Fortitudo, Santi Puglisi, quando si accorge di avere perso il contratto. La storia, però, ha un lieto fine e al fotofinish Basile si accaserà alle aquile bolognesi.
A Bologna tra fuoriclasse e fantasmi
Approdato in una Fortitudo piena di fuoriclasse, Gianluca Basile torna a sentirsi un “bimbo sperduto” in mezzo all’isola che non c’è dei vari Myers, Fucka, Dan Gay, Jaric, Mulaomerovic e Karnisovas. Entrando in palestra ogni giorno si chiede: “Merito di giocare al fianco di questi grandi campioni?”. È un altro livello, ma se da un lato la bassa autostima del pugliese non gli farà godere a pieno quei momenti magici, dall’altro sarà lo stimolo per spingerlo ogni giorno a crescere e migliorarsi.
Nell’ambiente felsineo la pressione è palpabile. I tanti investimenti societari avevano fruttato al massimo dei secondi posti e quello della stagione precedente era stato particolarmente scottante dopo la finale persa contro i rivali cittadini della Virtus con il famoso “tiro da quattro” di Danilovic. E il destino, beffardo per definizione, regala a Basile un esordio indimenticabile. A una settimana esatta dal suo arrivo, il 7 febbraio 1999, in programma c’è proprio il derby bolognese tra Virtus e Fortitudo. La tensione di Gianluca è alle stelle ma si scioglie appena mette piede sul parquet della Unipol Arena. Controllerà per tutta la partita uno dei virtussini più pericolosi, Antoine Rigaudeau, rubandogli diversi palloni e sfoderando un’attenta partita in marcatura che aiuterà la Fortitudo a vincere. La fase difensiva continua ad essere il punto forte di Basile e lui sa di essere a Bologna fondamentalmente per quello: impensabile soffiare il posto a Myers, Karnisovas e compagnia bella che però, avendo un’attitudine molto offensiva, necessitano di qualcuno alle spalle con muscoli, testa, gambe e polmoni. “Fa quello che agli altri non va di fare”: le parole di suo padre gli furono ancora d’aiuto.
La Regular Season è un trionfo, ma in gara 5 delle semifinali scudetto contro Treviso, Karnisovas si fa stoppare da Marconato il tiro decisivo. Né andrà meglio in Eurolega (che per regolamento Basile non poteva disputare): dopo aver eliminato Panathinaikos e Real Madrid, la Fortitudo approda alle Final Four a Monaco di Baviera, venendo mandata a casa ancora una volta dai cugini della Virtus.
Medaglia d’oro e fiocco rosa
Due giorni dopo lo psicodramma sportivo di Treviso escono le convocazioni in Nazionale per gli Europei in Francia del 1999.
I cinque fortitudini Myers, Fucka, Galanda, Basile e Damiao arrivano nel ritiro di Grado abbastanza depressi. Fuori dall’hotel il ct Boscia Tanjevic li accoglie dicendo: “Avete perso lo scudetto? Non vi preoccupate, vinceremo l’Europeo”. “Pensavamo ci stesse prendendo in giro”, dirà poi Basile. Invece l’allenatore serbo è maledettamente serio. Amante come coach Lombardi dei play alti, utilizzerà Basile e Meneghin proprio in cabina di regia. Come nella Teamsystem Bologna, infatti, anche nell’Italia la lotta per un posto da playmaker era meno agguerrita rispetto al ruolo di guardia e ala piccola.
Il ruvese fa parte di quel ricambio generazionale che Tanjevic ha voluto per ringiovanire le seconde linee del gruppo affiatato che aveva conquistato l’argento agli Europei di Barcellona. E che già conosceva gli estenuanti metodi di allenamento del coach slavo: molta atletica, anche direttamente sulla pista o su un campo da calcio, per lavorare sul lungo. A volte addirittura in spazi aperti con notevole pendenza in salita, a fare scatti di cinquanta metri.
Proprio durante la preparazione al torneo, però, da Ruvo arriva una notizia di quelle che ti cambiano la vita per sempre: la sua Nunzia lo ha reso per la prima volta papà di Alessia. La gioia è incontenibile, vorrebbe prendere il primo aereo e volare a stringerle entrambe tra le braccia. Ma il suo posto nei dodici convocati non è sicuro, il livello è alto e forse pensa che partire in quel momento, in cui nessuno si stava tirando indietro dalle fatiche, gli avrebbe fatto perdere quel treno importante. E non chiederà nemmeno il permesso di farlo. Vedendolo giù di morale, Gek Galanda e il suo compagno di stanza Andrea Meneghin gli fecero trovare appeso sulla porta un fiocco rosa ricavato da una pagina della Gazzetta dello Sport. Proprio quel Meneghin che lo aveva snobbato qualche anno prima, inventerà e gli dedicherà un’esultanza particolare, ovvero mimare l’atto di cullare un neonato dopo ogni vittoria. E saranno tante in quella cavalcata azzurra, che terminò vincendo la medaglia d’oro dopo aver battuto due superpotenze come la Jugoslavia in semifinale e la Spagna in finale.
Il salto di qualità
Nel primo semestre bolognese Basile è un giocatore utile nelle rotazioni, ma non un titolare. Difendere bene e correre sui contropiedi avversari non è sufficiente per partire nel quintetto base tra quei fenomeni e Gianluca capisce che deve fare un ulteriore salto di qualità. Comincia a lavorare disperatamente sulla meccanica dei piazzati, passando ore in palestra a provare il tiro da fermo. In questo modo avrebbe potuto sorprendere gli avversari che ormai lo avevano battezzato come difensore puro, lasciandogli molto spazio in campo largo. E, al tempo stesso, guadagnare la fiducia dei compagni anche per le soluzioni offensive.
“Io non mi sono mai sentito un tiratore– dirà – Piuttosto uno che poteva fare canestro nelle giornate giuste”. Ma affinché una giornata fosse “giusta”, anche quelle precedenti dovevano essere perfette: condizione fisica al 100%, allenamenti curati nel minimo dettaglio, alimentazione controllata. Basile si costruisce una routine da atleta impeccabile: i suoi canestri erano solo la punta dell’iceberg di un lavoro settimanale profondo e costante.
Il nuovo coach Recalcati, poi, fa sua l’intuizione di Lombardi e Tanjevic facendolo agire da playmaker. D’altronde, spostare Carlton Myers non si poteva, ma un regista più alto del solito è una vera gatta da pelare per la maggior parte dei palleggiatori bassini chiamati di volta in volta a marcarlo. Così Gianluca trova il suo posto in quintetto e anche un leader come Myers, forte dell’affiatamento azzurro, comincia a fidarsi maggiormente di lui.
I risultati non tardano ad arrivare: in Regular Season non c’è storia e, dopo qualche malumore seguito alla sconfitta in gara 1 subito sedato da coach Recalcati, la Fortitudo stavolta vincerà la finale contro Treviso, chiudendo la stagione con il primo scudetto della sua storia e solo 4 sconfitte su 40 partite totali.
Quei tiri ignoranti alla Lituania
Nonostante l’approdo tra le aquile di Meneghin, la stagione successiva non sarà così ricca di soddisfazioni. Anzi, ancora una volta i cugini della Virtus spediscono Basile e compagni all’inferno sia ai quarti di Eurolega sia in finale scudetto, in un’annata dove vinceranno tutto in Italia e in Europa. Basile raccoglie l’eredità di Carlton Myers – trasferitosi a Roma – e prende per mano la squadra, segnando nel 2002/03 il record personale di 622 punti fatti e 105 assist in stagione.
Tra il 2002 e il 2004 la Effe scudata centrerà per tre volte consecutive la finale scudetto (perdendo in due occasioni contro Treviso ed in una contro Siena) e per la prima volta una finale di Eurolega nel 2004 a Tel Aviv contro il fortissimo Maccabi, che si impose con un devastante 118 a 74.
A sostituire Myers arriverà Gianmarco Pozzecco: con lui Basile - nel frattempo divenuto capitano della squadra (nonché uno dei giocatori più forti del campionato) - avrebbe voluto costruire un secondo ciclo di vittorie dopo quel triennio avvincente ma sfortunato.
Anche in Nazionale, dove dopo il bronzo agli Europei del 2003 gli azzurri sono chiamati ad affrontare la sfida olimpica ad Atene 2004. In panchina c’è quel Charlie Recalcati che il Baso conosce bene e che sta testando l’ennesimo cambio generazionale, con i classe ‘74/’75 come il pugliese chiamati a prendersi la responsabilità della squadra. Una squadra che si batte con grande cuore ma che non sembra avere il talento di quella precedente, tanto che Basile la soprannominerà “la Nazionale degli scappati di casa”.
Intanto, però, quegli scappati di casa – trascinati da uno splendido Basile – vittoria dopo vittoria raggiungono la semifinale contro la più quotata Lituania. I baltici, infatti, avevano trionfato nell’Europeo di Svezia 2003, passato il girone a punteggio pieno battendo anche gli USA e potevano contare su talenti cristallini come Macijauskas, Stombergas e Zukauskas. Nel primo quarto i rodati meccanismi lituani appaiono imperforabili, poi però l’Italia comincia a chiudere i varchi in difesa e a salire in cattedra è Gianluca Basile. La mano del pugliese è caldissima e comincia a tirare da tre da tutte le posizioni e in tutti i modi. Piazzati in condizioni estreme, spesso anche forzati, con la mano dell’avversario in faccia e da distanze siderali. Canestri assurdi a rivederli ancora oggi, tanto da essere entrati nel vocabolario cestistico come “tiri ignoranti”.
A 1’47 dalla fine, su un pallone che sembrava perso, Basile si alza ancora una volta dall’arco allo scadere dei 24 secondi e infila la tripla del +10 che taglia le gambe alla Lituania. Sono 3 dei ben 31 punti con cui il Baso chiuderà quella che è considerata la partita iconica della sua carriera, gettandosi a terra in lacrime tra le braccia di Pozzecco.
Come ti annullo Lebron ma rifiuto l’NBA
Nonostante la memorabile vittoria sulla Lituania con Basile protagonista assoluto, il sogno olimpico terminò in finale contro l’Argentina anche a causa dell’enorme dispendio fisico patito in semifinale. Una medaglia d’argento che però non offuscò di un millimetro i riflettori puntati sulla nuova stella del basket italiano, Gianluca Basile. Durante la preparazione ad Atene 2004, infatti, la Nazionale di Recalcati aveva giocato in amichevole a Colonia contro gli Stati Uniti delle star NBA Allen Iverson, Dwyane Wade, Carmelo Anthony, Tim Duncan, Amar’e Stoudemire, Shawn Marion, Lamar Odom e soprattutto lui, Lebron James, considerato l’erede di Michael Jordan e Kobe Bryant. Ad allenare questo squadrone sulla carta invincibile era Larry Brown, appena laureatosi campione NBA coi Detroit Pistons.
Manco a dirlo, a Basile da Ruvo di Puglia tocca proprio marcare Lebron, ma a fine gara sarà l’asso statunitense ad avere gli occhi fuori dalle orbite e le orecchie fumanti. Con una difesa ossessiva e una padronanza del gioco inattesa per gli americani, l’Italia sorprende e batte gli USA 95-78 con una grande prestazione di Basile, autore di 25 punti con la bellezza di 7 bombe “ignoranti”, di cui 5 solo nel terzo quarto direttamente in faccia a Lebron James. Che di punti ne metterà solo 5. Un risultato storico per la Nazionale e per il basket tutto: mai prima d’allora la rappresentativa a stelle e strisce aveva perso in amichevole schierando un roster NBA. Ancora stordito, dopo il match coach Brown dirà: “Oggi ho imparato una lezione: in Europa ci sono giocatori super, li avevamo sottovalutati”. Una dichiarazione – e una partita - che non passa inosservata al di là dell’oceano. All’epoca il feeling tra la NBA e il Vecchio Continente era scarso: gli uni snobbavano la pallacanestro europea, mentre gli altri consideravano il basket americano troppo fisico e poco tecnico. Eppure dopo quell’amichevole cominciarono a girare voci su un presunto interessamento dei New Jersey Nets per Basile e Galanda. Rick D’Alatri, preparatore atletico di quella Nazionale azzurra ma anche dei Nets, sponsorizzò molto i due italiani alla sua franchigia, tanto che le riviste specializzate cominciarono a parlare di contatti in corso. Fu direttamente il Baso a smentire quei rumours, affermando di non pensare di avere la struttura fisica necessaria per affrontare quel tipo di basket. La vera preoccupazione di Basile, però, era quella di non poter essere più protagonista, di non avere più la responsabilità dei momenti chiave, degli ultimi palloni come in Europa. Un aspetto forse sottovalutato dai tanti italiani che più recentemente sono approdati in NBA e che, nonostante l’indubbio talento, con la Nazionale non hanno ottenuto i medesimi risultati.
Capitano coraggioso
La stagione 2004/05 è la settima consecutiva di Basile con la canotta della Fortitudo Bologna. Dopo tre finali perse, le aquile felsinee sembrano condannate a un destino da eterne seconde e due giovani di belle speranze come Mancinelli e Belinelli non sembrano bastare per fare della Effe una favorita per lo scudetto. Guidati da coach Repesa e dalla sua mentalità vincente, però, i biancoblu tirano fuori una grinta inaspettata. Anche troppa a volte, visto che Pozzecco finisce fuori squadra. In Eurolega entrano nella Top16 proprio grazie a un “tiro ignorante” di Basile contro il Tau Vitoria che entrerà nella memoria degli appassionati come quello del 2003 contro Cantù o quello del 2004 contro l’Efes Istanbul. Ma è in campionato che Basile e la Fortitudo scrivono la loro storia più bella. Nella quarta finale scudetto di fila i bolognesi sono in vantaggio nella serie e con una vittoria in gara 4 a Milano sarebbero campioni d’Italia. A trenta secondi dalla fine Douglas sbaglia un tiro libero e la Effe rimane sotto di un punto. La successiva azione dell’Olimpia, però, non chiude il match: Basile conquista il rimbalzo quando mancano sette secondi, mezzo quintetto milanese va a pressarlo ma lui si libera di tre avversari e scarica a occhi chiusi per Douglas. Il panamense non ha tempo per pensare e, forse ispirato dai “tiri ignoranti” del suo capitano, ne scaglia uno che si insacca nel cesto proprio sulla sirena. I milanesi protestano e l’arbitro corre a controllare l’instant replay. Passano secondi interminabili. Basile si aggira per il parquet con le mani giunte. A posteriori dirà: “Avevo una voglia matta di chiuderla perché ero stanco e con qualche acciacco. Giocare gara 5 sarebbe stata una mazzata. Pregavo che non succedesse”. E quando l’arbitro riemerge dal monitor indicando al cielo il numero tre con le due mani, l’Mvp della finale esplode di gioia andando a dedicare lo scudetto ai tifosi, prima di essere travolto dall’abbraccio del fisioterapista Ferrarini. Quei tifosi che dopo sette stagioni considerano ormai il capitano uno di loro, ma che nel profondo del cuore forse già sapevano di aver assistito alla fine di una grande epopea.
In Catalogna da Marconato
La finale di Milano sarà l’ultima partita di Basile in maglia Fortitudo. In estate decide di alzare l’asticella e provare a vincere l’Eurolega accettando l’offerta del suo vecchio compagno Zoran Savic, ora general manager di una delle squadre più importanti d’Europa, il Barcellona. Ma non sarà una scelta priva di sofferenza: “Sono due notti che non riesco a dormire – scrive nella lettera rivolta ai tifosi delle aquile - Pensavo che il distacco potesse essere più facile, ma evidentemente c’è qualcosa di ben più grande di una semplice squadra, qualcosa di unico che lega giocatore, Società e tifosi, e che non si cancella nemmeno con la firma su un altro contratto. La Fortitudo me la porterò dentro, per sempre”.
A 30 anni, il Baso viene da uno scudetto vinto con la Fortitudo da leader e capitano della squadra ma in Spagna si ritrova in un contesto totalmente diverso. In squadra ci sono solo eccellenze. Il Barça gioca solo per vincere: perdere non è ammissibile. Il livello di tutta la polisportiva è impressionante e riemergono in lui i fantasmi del passato. La paura di non farcela, di non essere all’altezza dei suoi obiettivi.
Ma in quella polisportiva gli esempi da seguire sono tanti. C’è Ronaldinho, nel calcio, che oltre ad essere Pallone d’Oro uscente è anche considerato il miglior giocatore del momento. Quell’anno, però, sembra un altro: spento, involuto, un atleta finito. Nei corridoi blaugrana tutti sanno della sua bella vita e del suo scarso impegno in allenamento. Chi non smette un attimo di lavorare, invece, è un ragazzino argentino di nome Leo Messi, che di lì a poco infatti esploderà. Poter ammirare con quale fame la Pulce si allenasse sarà un’illuminazione per Gianluca: come Messi, infatti, anche lui sapeva esattamente cosa lo aspettava se non ci fosse stato lo sport. E allora, memore delle parole di suo padre, si rimette di nuovo in gioco da zero, capisce dove si trova e cosa fare per guadagnare minuti in campo: come sempre, quello che non vogliono fare gli altri, ovvero difendere. Il coach Dusko Ivanovic, infatti, della difesa è un integralista: chi non difende non gioca. Persino il beniamino di casa Navarro deve adeguarsi. Allenamenti spossanti, ripetute di allunghi prima della doccia, sedute di atletica fatte all'alba: come negli addestramenti dei marines americani, per lui gioca chi resta in piedi, anche se è più scarso degli altri. Ma tutto questo per il Baso non è un problema, anzi, ci va a nozze. Eppure non riesce subito a conquistare Ivanovic, che lo aveva fatto acquistare come tiratore puro, cosa che Basile di fatto non si sente. Trovare un equilibrio tattico non è semplice e, ogni tanto, capita che il pugliese la passi invece di tirare. Un giorno Ivanovic ferma l’allenamento e gli dice: “Non vuoi tirare? Bene, corri!”. E lo mette a bordo campo a correre da solo. Umiliato davanti ai suoi illustri compagni, per di più a trent’anni, Basile non fa una grinza e corre. Con umiltà, non ha mai alzato la voce diventando giorno dopo giorno sempre più rispettato nello spogliatoio e nell’ambiente catalano. Come uomo e come cestista.
Con Ivanovic, però, le vittorie non arrivano. Con una sola Coppa del Re in due anni e mezzo, l’Eurolega sembra ancora un miraggio. A sostituirlo è il suo vice Xavi Pascual e la squadra sembra rinascere. Pascual, da buon secondo, ha sempre seguito attentamente le dinamiche del gruppo e, oltre a prendere il meglio dalla vecchia gestione tattica, sa come motivare i suoi ragazzi. Arrivano così due scudetti, un’altra coppa nazionale e, soprattutto, la tanto agognata Euroleganella stagione 2009/10 contro l’Olympiakos a Parigi, nello stesso palazzetto dove il Baso vinse gli Europei con l’Italia. Dopo dieci tentativi, a 35 anni Gianluca Basile è di nuovo sul tetto d’Europa.
L’ennesimo trasloco
Basile trascorre sei anni in Catalogna. Il pubblico lo adora, per certi versi anche in maniera morbosa. Il suo addetto stampa raccontadi richieste abbastanza bizzarre, come quella ragazza che insistette alla morte pur di ricevere via posta una ciocca di capelli del suo idolo pugliese. Dopo il trionfo in Eurolega, però, Gianluca si frattura il quinto metatarso ed è costretto a star fuori per un lungo periodo. Troppo per gli standard del Barcellona, che decide di tagliarlo. A quei livelli i giocatori sono come macchine: appena non vanno più, si cambiano. Quando gli comunicano la decisione Basile scoppia in lacrime. E quando gli tocca riferirlo a casa, la sua famiglia piange con lui. Dopo la seconda figlia Manuela nata a Bologna, ora c’è anche Federica che ha cinque anni ed è nata a Barcellona. Bambine che crescono e creano legami difficili da recidere quando c’è da spostarsi per lavoro. Anche per questo, dopo praticamente un anno di stop, l’idea di smettere con la pallacanestro accarezza la mente di Basile, che inizia a tirare un po’ il fiato. La sua lunga rincorsa verso l’affermazione sportiva si può dire conclusa: più in alto di così non si poteva arrivare ed il lontano ricordo dei campi e della frutta da raccogliere era svanito. E a 36 anni, poi, il fisico comincia a presentare il conto, mostrando i primi segni del tempo.
Durante il periodo di inattività, però, ha ripreso gusto a guardare il campionato italiano, dove una sola squadra sta facendo terra bruciata attorno a sé: Siena. L’unica compagine in grado di sfidarne l’egemonia sembra essere la Bennet Cantù, che non ha certo gli interpreti di qualità dei toscani, ma si affida ad un coach di grande talento come Andrea Trinchieri. Così, quando arriva l’offerta del dirigente canturino Bruno Arrigoni, Basile accetta di tornare in Italia. Dopo averlo sofferto a lungo come avversario, i tifosi di Cantù possono adesso ammirarlo nei suoi mitici “tiri ignoranti”, come quello sulla sirena con cui espugna Bilbao in Eurolega.
A Cantù il Baso gioca bene, si diverte ed è subito un beniamino del Pianella. A febbraio, però, è costretto a fermarsi di nuovo per uno stiramento al flessore. Una novità per lui, che non ha mai avuto infortuni muscolari in tutta la carriera. E che non riesce ad accettare. Basile non vuol sentir parlare di gestione del minutaggio, vuole sempre dare fino all’ultima goccia di sudore e non coglie i segnali che il suo corpo gli sta mandando. Nemmeno i medici riescono a fermarlo: forza i tempi di recupero, rientra in campo prima del previsto e puntualmente si fa di nuovo male. La ricaduta lo ferma per un altro mese e da lì in poi non riuscirà più a ritrovare la forma eccellente della prima parte di stagione, neppure per i playoff scudetto.
Sfumata Brindisi, si va in Sicilia
La delusione per aver raccolto meno di quanto potuto è cocente e Gianluca preferisce smorzarla cambiando aria dopo una sola stagione. A credere in lui è l’Armani Milano, ma sarà un matrimonio in cui non sboccerà mai l’amore. L’Olimpia, infatti, ha problemi di spogliatoio, la squadra non gira e per Basile sarà il peggior anno in carriera. Quello che lo farà ancora una volta pensare di smettere col basket.
Gli addetti ai lavori, infatti, lo considerano bollito ma lui non può accettare di uscire di scena così. Ne ha abbastanza degli ambienti iper competitivi e vorrebbe una squadra dove poter giocare senza pressioni. Il suo amico Pozzecco, che qualche anno prima aveva chiuso la carriera a Capo d’Orlando ed ora ne era divenuto il coach, lo chiama per invitarlo in Sicilia. Ma il Baso tentenna. Vorrebbe avvicinarsi a casa, a Ruvo di Puglia, e per questo chiama personalmente il presidente del Brindisi, Fernando Marino. Il numero uno della New Basket è lusingato, ma non può sbilanciarsi senza il consenso dell’allenatore Bucchi e senza aver liberato un posto nel roster. Il tempo passa, ma la situazione non si sblocca. Anche Verona si fa avanti, ma Basile ha nel mare ormai un chiodo fisso e alla fine decide di accettare l’offerta dell’Orlandina in A2, dove oltre a Gianmarco Pozzecco avrebbe ritrovato anche un altro vecchio cuore fortitudino, il professor Abele Ferrarini.
L’avventura siciliana inizia però col piede sbagliato. E non solo per le rocambolesche battute di pesca in cui Gianluca è puntualmente coinvolto. Dopo due settimane si stira il polpaccio e il recupero è molto più faticoso del previsto. Rivede il campo solo a novembre ma da lì in poi il Baso tornerà a fare la differenza. In Lega Due nessuno regala niente, ma il livello è inevitabilmente più basso e il cestista pugliese offre emozioni soprattutto nei derby col Barcellona, che non veste il blaugrana come il suo Barça ma il giallorosso del Barcellona Pozzo di Gotto.
A 39 anni Basile dispensa ancora grande basket e “tiri ignoranti” e, sebbene l’Orlandina arriverà seconda in classifica, in seguito al fallimento di Siena potrà festeggiare la promozione in A1, dove Gianluca giocherà altre due stagioni ottenendo altrettante salvezze.
Una seconda casa
Il calore della Sicilia non ha lasciato indifferente la famiglia Basile. Così, a 42 anni e con 21 di basket sulle spalle – il Baso decide di ritirarsi dalle scene col sollievo, però, di aver trovato una nuova casa per sé e per i suoi cari. Niente più pallacanestro, niente più traslochi: Gianluca, Nunzia e le loro tre figlie mettono radici a Capo d’Orlando, in provincia di Messina, dove sportivamente Basile è già considerato una leggenda.
A chi lo intervista dopo il ritiro mette subito in chiaro quali siano le sue priorità: “Ho giocato fino a 41 anni ma durante tutta la carriera ho avuto incredibili complessi di inferiorità: per superarli sono andato per troppo tempo oltre i miei limiti ed ora ho bisogno di riposare. Grazie al basket ho vissuto un’avventura straordinaria, ma non mi manca, anzi a volte ne ho il rigetto. Adesso ho voglia di dedicarmi alla mia famiglia che per tanti anni ho trascurato”.
Insieme a Nunzia, Gianluca si impegna nel sociale, si prende cura di diversi cani abbandonati dividendo le sue giornate tra loro, le figlie e la sua grande passione per la pesca. Ogni tanto gli piace prendere il furgone e guidare in solitudine godendosi i meravigliosi paesaggi della Trinacria, magari apprendendo antiche tradizioni locali come la costruzione di panieri in vimini.
Gianluca è tornato a stare bene con le cose semplici, riscoprendo addirittura l’odore delle mani sporche di terra. Ha ripreso ad andare a funghi, come faceva con suo padre e lo zio Giacomo, e persino a coltivare l’orto: una cosa che lo ha sempre terrorizzato e che ora vive con piacere, lo riporta alle sue origini e gli fa apprezzare mille volte di più i sacrifici fatti in tanti anni.
Sulla carta d’identità ora ha scritto “sportivo professionista” e indipendentemente da cosa deciderà di metterci su quando scadrà, Gianluca Basile rimarrà comunque uno dei giocatori italiani di basket più forti del nuovo millennio con 4 scudetti vinti (2 in Italia e 2 in Spagna), 3 Coppe del Re, 2 Supercoppe spagnole, 1 Eurolega, svariati premi da Most Valuable Player, un oro e un bronzo agli Europei con la Nazionale e un meraviglioso argento alle Olimpiadi di Atene 2004.
Dietro un palmares da eroe assoluto dello sport, però, la consapevolezza di essere sempre stato un essere umano, con tutti i limiti che ciò comporta. Gianluca è diventato Basile scontrandosi fino all’apice della carriera con i suoi conflitti interiori, il che a posteriori lo rende forse ancora più grande. Ha seminato con passione, non nei campi ma sul parquet, raccogliendo trofei ma soprattutto l’amore della gente, diventando un idolo praticamente in tutte le piazze in cui ha giocato: da Reggio Emilia a Capo d’Orlando, passando per Bologna, Barcellona e Cantù.
Basile era umiltà ma anche leadership, modestia e realismo, timidezza ma anche forza di volontà, difensore impenetrabile ma anche attaccante letale, specialmente nei momenti decisivi, con i suoi “tiri ignoranti”. Un sangue freddo che non è dote comune a tutti e che ha regalato “buzzer beater” (canestri sul suono della sirena) capaci di tatuare emozioni indelebili nei cuori dei tifosi. Uno dei giocatori più determinanti che l’Italia cestistica abbia mai conosciuto, ma al tempo stesso sempre coi piedi per terra, costantemente in fuga da quei fantasmi da cui finalmente ora è libero.
“Avrei potuto vivere tutto con maggiore leggerezza – dirà – ma non sarei stato io.Io ho sempre fatto quello che gli altri non avevano voglia di fare”.
Luca Brindisino
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*Crediti immagini:
(1) Gazzetta dello Sport
(2) La Giornata tipo
(3) PR Story
(4) Azzurri di Gloria
(5) 1000 cuori rossoblu
(6) Ruvo channel
(7) Super6Sport
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(10) Olimpia Milano
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